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Laboratori di percussioni

Presentazione

L’esigenza di avviare un laboratorio dedicato allo studio e alla pratica degli strumenti a percussione nasce da una considerazione maturata nei molti anni di insegnamento, sia di strumenti e materie decisamente inerenti all’argomento, e sia di musica d’insieme, laboratori all’interno dei quali in troppe occasioni, a mio giudizio, si evidenzia una difficoltà di approccio con l’aspetto ritmico della musica, e spesso una quasi totale inconsapevolezza dei principali meccanismi che regolano funzioni e utilizzo della componente ritmica della stessa. Quindi, per dare una risposta concreta ad una concreta mancanza, il laboratorio intitolato “The Sound of Rhythm” si rivolge a tutti i musicisti, specialisti e non degli strumenti a percussione, che sentano l’esigenza di approfondire e sviluppare una consapevolezza che riguarda l’aspetto fondante di ogni forma in musica, il ritmo, elemento senza il quale ogni discorso relativo ad costruzioni successive, melodiche o armoniche, fatica a trovare una propria “direzione”. Il lavoro verterà sullo studio e la pratica di alcuni principi di base della interazione/costruzione ritmica, sullo sviluppo della capacità di ascolto nonché sulla progressiva capacità di improvvisare ritmicamente. Per poter lavorare in maniera funzionale e soprattutto utile ai partecipanti al corso, gli stessi saranno divisi per livelli, in modo da poter così affrontare di volta in volta argomenti di comune utilità. Le prime fasi dello studio collettivo verteranno sulla capacità di produrre, insieme – e non è come dirlo – unisoni e “opposizioni”, un concetto teoricamente semplice comunemente conosciuto come battere/levare (una delle domande più frequenti: ma com’è – o cos’è!- il levare? Volete sapere la risposta? Venite al laboratorio!), per passare poi gradualmente ad affrontare costruzioni più articolate e complesse, facendoci dare una mano, in questo senso, dal “minimalismo” di Steve Reich, dalla musica tradizionale Afro-Cubana e dalla musica dell’Africa Occidentale per imparare a costruire “strati” di ritmi che si sovrappongono e creano cicli, e dalla musica classica dell’India del Nord e da quella di Java e Bali, per capire come imparare a “respirare” insieme ritmicamente. Un giro del mondo attraverso il ritmo, che ci aiuterà anche a capire come questo aspetto della musica metta in comunicazione diretta aspetti di culture solo apparentemente distanti, e in cui la diversità che le diverse tradizioni propongono non possa essere vista altrimenti che come una grande, sfaccettata fonte di arricchimento culturale.

Presentazione Corso di Storia della Musica

Perché un corso di storia della musica? A che pro? Serve? E se si, a cosa o a chi serve? Forse a chi si vuole occupare di musica da un punto di vista puramente teorico, o ne vorrebbe eventualmente scrivere, più che suonarla… A chi invece intende la musica come pratica strumentale, spesso viene da chiedersi: “Ma studiare la storia mi aiuta a suonare meglio?” E la risposta prima, di getto e senza stare troppo a ragionare sulle varie ed eventuali implicazioni, potrebbe essere che no, in fondo posso suonare ugualmente anche senza sapere una serie di cose legate a quello che faccio in musica, in fondo quello che conta è altro, è studiare lo strumento, le sue tecniche, il repertorio, essere efficienti da un punto di vista pratico, il resto è spesso relegato ad un ambito secondario, ci sarà tempo, prima o poi, per occuparsi anche di quello…il fatto è che quel tempo, quel poi, alla fine, e più spesso che no, non arriva mai, e in questo modo vaghiamo in un limbo, temporale innanzitutto, che ci impedisce di fare collegamenti, di capire come mai gli accadimenti si siano succeduti in un certo modo piuttosto che in un altro, abbiamo solo una vaga idea del dove e come collocare storicamente i protagonisti della musica che scegliamo di suonare, di qualunque musica si tratti, e sostanzialmente non riusciamo ad avere una visione “panoramica” di tutto ciò che ci ha preceduto. Se però consideriamo che il rapporto tra presente e passato, sia prossimo che remoto, è un rapporto di tipo dialettico, e che tutto ciò che ci ha preceduto è direttamente collegato e in qualche modo “responsabile” di ciò che abbiamo come eredità oggi ( e che cioè vediamo, utilizziamo, di cui parliamo e ragioniamo, ed a cui persino ci appassioniamo), ecco che la domanda posta all’inizio (ma conoscere la storia mi aiuta a suonare meglio?) assume una diversa connotazione, e può forse essere collocata sotto una luce diversa. Siamo sempre nell’ambito della consapevolezza di quello che siamo e che facciamo, e scoprire una serie di risvolti “storici”, che magari avevamo sotto gli occhi, ma di cui non ci eravamo mai accorti, ci può aiutare a capire meglio, quello che facciamo, come e perché, e in fondo anche quello che siamo. Detto tutto questo, forse si, conoscere la storia ci aiuta a capire il presente, in generale ed in particolare, e molto probabilmente anche a suonare “meglio”.

Presentazione Laboratori su Monk, Horace Silver e Mingus

I laboratori di musica d’insieme vertono in generale sull’approfondimento del materiale che consideriamo “standard” della tradizione jazzistica, del suo repertorio, nonché del bagaglio individuale di ogni musicista che si voglia confrontare con la tradizione di questa musica. Sappiamo che consideriamo “standard” un corpus di brani, in origine per la quasi totalità canzoni del periodo di Tin Pan Alley, cui possiamo poi aggiungere una serie di altri brani, di autori/esecutori cronologicamente più vicini a noi, divenuti dei classici nel tempo, in generale modellati sulle stesse forme canoniche, innanzitutto la forma song AABA, oppure una sua variante, quella che definiamo comunemente ABAC, con l’aggiunta di una serie di blues generalmente costruiti su dodici battute. Alcuni grandi innovatori del passato, Monk, Silver e Mingus certamente tra questi, resisi conto ad un certo punto che ciò che avevano contribuito ad creare si stava cristallizzando in forme consolidate, e per certi versi sterili, hanno cercato di superare questo impasse producendo in proprio del materiale originale, che potesse andare oltre i confini allora conosciuti, e stabilire così nuovi traguardi e frontiere da raggiungere. Monk l’ha fatto lavorando “dall’interno”, scardinando così le forme acquisite attraverso una sorta di altra geometria, costruendo brani apparentemente canonici, in realtà forieri di sviluppi molto spesso inediti o difficili da immaginare. Mingus ha lavorato su quelle che definiamo “forme estese”, strutture cioè più ampie ed articolate di quelle con cui i musicisti erano abituati a confrontarsi, richiedendo loro in questo modo un diverso atteggiamento ed una serie di competenze maggiori che in passato. Silver ha lavorato un po’ in entrambi i sensi, contribuendo così a creare un repertorio di originals più “avanzati”, divenuti una costante della contemporaneità jazzistica. Affrontare questi repertori significa intanto doversi documentare, ascoltando i materiali e dando loro una collocazione storica, che aiuta a capirne la genesi, e dunque a cogliere il senso dell’evoluzione del linguaggio, attraverso almeno tre decenni, dagli anni ’50 a tutti i ’70, in secondo luogo si stabilisce un rapporto più diretto e consapevole con musiche che, in sostanza ed insieme ad altre, hanno contribuito in modo sostanziale a creare l’universo sonoro di riferimento nel quale ci troviamo ad operare a tutt’oggi.

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